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Presentato a Milano il 30 gennaio il n. 3/2019 di Economia Italiana presso Oliver Wyman

Gender gaps in the Italian economy and the role of public policy

di Paola Pilati (fchub.it)

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Dal 33 per cento al 40 per cento. I cda delle società quotate e quelle a partecipazione pubblica hanno i tre prossimi rinnovi di cariche aziendali per mettersi in pari: due quinti delle poltrone dovranno essere occupate da donne. Con la legge Golfo-Mosca l’Italia ha fatto l’unico passo concreto per colmare il gender gap che ci vede fanalino di coda tra i paesi avanzati. 

Abbiamo un tasso di partecipazione femminile al mondo del lavoro basso (meno di una donna su due, e solo il 17 per cento nella fascia 25-34 anni), un serbatoio di donne inattive di 8 milioni, e buste paga più leggere a parità di mansioni.

Come combattere questa discriminazione di genere? L’ultimo numero della rivista “Economia Italiana”, curato da Paola Profeta, ha declinato il tema con grande originalità ( https://fchub.it/la-parita-di-genere-deve-invadere-il-nostro-sistema-economico/). E lo ha presentato in due convegni, a Roma e a Milano, che hanno offerto materiale e proposte con un dibattito appassionato animato dalle voci del governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco ( https://staging.economiaitaliana.org/convegno-gender-gaps-in-the-italian-economy-and-the-role-of-public-policy/), della ministra delle Pari Opportunità Elena Bonetti, dal vicedirettore della Banca d’Italia Alessandra Perrazzelli, dalla responsabile delle Risorse umane di Snam Paola Boromei, dai vertici di tre organizzazioni che rappresentano il professionismo femminile nel mondo delle aziende, Cristina Finocchi Mahne (WDC Foundation), Barbara Falcomer, direttore generale di Valore D, Maria Pierdicchi, presidente di NedCommunity. E da due rappresentati del mondo della finanza, Claudio Torcellan di Oliver Wyman e Fabio Candeli, amministratore delegato di Banca Profilo.

Le analisi della rivista hanno fatto da innesco (https://staging.economiaitaliana.org/pubblicazioni/gender-gaps-in-italy-and-the-role-of-public-policy/). Chiedendosi dove la discriminazione cominci a radicarsi, e scoprendola addirittura negli asili nido (vedi articolo di Del Boca e altri); testimoniando come nella difesa dei diritti delle donne licenziate persino la giustizia civile usi pesi e misure diverse che per gli uomini (vedi la relazione di Giovanna Vaillanti); misurando la difficile scalata delle professioniste verso le posizioni apicali. Tutto questo, sebbene la quota di donne che raggiungono un livello di istruzione terziaria sia superiore alla quota di uomini (il 30 per cento contro il 20).

Un panorama che potrebbe essere scoraggiante, ma che vuole servire a dare indicazioni di policy per ricucire quel gap: dove intervenire, con quali strumenti, per quali obiettivi. Perché su questo terreno non si può lasciar fare al mercato. E bisogna combattere contro mille resistenze. Quella culturale, che vede il 51 per cento delle opinioni attribuire alle donne il destino di accudire innanzitutto la famiglia (vedi l’articolo di Barigozzi, Cremer, Monfardini). Quella delle stesse donne che evitano le materie STEM e si mostrano spesso reticenti ad assumersi delle responsabilità sul lavoro. Quella che serpeggia su molti fronti, anche quello femminile, che accusa le “quote rosa” di insensato privilegio, un marchio negativo che offusca il merito.

Come trasformare l’obiettivo parità in un goal in cui è tutta la socità a guadagnarci, e non solo la parte femminile? Come evitare di mettere le donne di fronte al dilemma famiglia (e maternità) o carriera? Come proteggerle in alcune fasi della loro vita professionale con strumenti come i congedi o il part time senza che questi diventino uno stigma permanente sulla loro carriera, o uno svantaggio al momento della pensione? Vasto programma. Eppure una maggiore partecipazione femminile potrebbe essere la ricetta per far ripartire la crescita del paese.

Per chiudere il gender gap le quote, per esempio, si sono rivelate efficaci, come la legge Golfo-Mosca ha dimostrato. E hanno prodotto effetti virtuosi. Piantare una bandierina rosa all’interno dei cda, degli executive board, non è un costo, un fastidioso obbligo numerico, ma ha migliorato anche la qualità della partecipazione maschile, abbassando l’età media e alzando il livello di istruzione (vedi la relazione di Annarita Macchioni Giaquinto).

Il mondo della finanza comincia a prenderne atto. Se l’americana Goldman Sachs ha annunciato che dal prossimo luglio non farà né collocamenti né investimenti in società nei cui cda siedono solo maschi bianchi, da noi l’amministratore di Banca Profilo Fabio Candeli ha testimoniato della quota crescente di donne nei ranghi del suo istituto, ma con un presenza più esile in quelli tecnici (per esempio il Fintech) e tra i promotori finanziari.

Non sorprende. Come riporta la ricerca di Oliver Wyman, Women in financial services 2020, presentata da Claudio Torcellan, le donne sono ancora molto sottorappresentate nel mondo della finanza. Sia come presenza ai vertici (nelle grandi aziende di servizi finanziari mondiali nel 2019 si segnalavano solo 6 ceo donne), sia negli executive board e nei comitati esecutivi (superano raramente un quarto delle presenze, e in un solo caso, quello dei pagamenti, raggiungono il 34 per cento).

La situazione si capovolge quando il mondo femminile viene visto in termini di bisogni finanziari. E qui ci sono non poche sorprese. A livello globale, due terzi dei bilanci famigliari sono sotto il controllo delle donne. Eppure una su quattro non ha fiducia nella propria capacità finanziaria. Di più: oggi il 40 per cento della ricchezza globale appartiene al genere femminile. Eppure quando vanno in pensione incassano il 30/40 per cento meno degli uomini e rischiano di più di finire in povertà.

La capacità delle donne di intraprendere è cresciuta. Il 40 per cento delle inziative d’affari appartengono a loro. Peccato che abbiano molte meno chance degli uomini di ottenere prestiti. E quando le donne acquistano prodotti finanziari spesso non trovano nulla fatto su misura sulle loro necessità.

La ricerca di Oliver Wyman illumina insomma un angolo buio del big money. Quello che ha fatto finora sottovalutare al mondo finanziario, dalle banche, alle assicurazioni, all’asset management, una clientela con un grandissimo potenziale. Un serbatoio di 700 miliardi di dollari che con un’offerta di prodotti giusti si potrebbe mettere in moto per acquistare polizze assicurative nella stessa misura degli uomini, investire in titoli invece che tenere cash, mettere a frutto prestiti per nuove iniziative. La ricchezza rosa aspetta solo di essere svegliata.

Intervento Del Boca
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